venerdì 14 febbraio 2014

Un cortile senza tempo

Guardo in basso mentre comincio a scendere le scale. Nero. Da quando sono piccolo per me la parola pece è prima di tutto le scale della casa del nonno. Un tempo tante case avevano i pavimenti così, ma oggi è difficile trovarne così vintage e ben invecchiati.

Esco a fare due passi e prendo aria. La piazza trasuda fascismo. I nonni, gli altri però, mi hanno raccontato di quando venne a parlare il duce, e si affacciò dal terrazzo e la piazza era piena piena e tutti quanti si urlava festanti… “Chissà perche lo facevamo”.

Cammino. Passo il ponte e mi fermo a mangiare un panino salsiccia e caciocavallo. Cammino. C’è un vento bastardo e non c’è in giro un cane. Avevo prenotato il biglietto per scendere qua prima di partire per la nuova esperienza, così potevo salutare il nonno, che poi non ci si vedeva più per un anno. Lui m’ha fatto lo scherzetto e ha deciso di spegnersi qualche giorno prima della data in cui dovevo vederlo ed ora mi trovo qua, a vagare per la città in cui tante volte m’ha accompagnato bar bar a mangiare gelati d’ogni sorta. E penso, anche se non ci riesco molto.

La piazza della cattedrale. Quanto l’hanno fatta brutta. Cammino. Riguardo in basso. Pietra di una certa età. Il ponte vecchio, questo sì che è bello.
Sono buffe le coincidenze. In questa città s’è laureato uno dei pazzi di questo blog, ma io ancora non lo conoscevo. L’ho conosciuto solo tempo dopo, in un arido incontro nella città che accumuna tutti noi, per poi costruirci qualcosa di importante oltre manica. A volte bisogna spostarsi in un mare più grande per capire che si può nuotare insieme. A proposito di mare, lui sta una manciata di km più a sud, oltre quella massa d’acqua che da questa città non si vede, ma che è poco distante. Altro continente, altro giro. Altro erasmus, altra coppia del blog che s’è conosciuta. Che casino!

Cammino. Cazzo che nostalgia, se foste qua cari coglioni sarebbe un gran bello alzare un calice parlando tutti insieme senza riuscire a finire neanche un puto discurso. Ieri v’ho pensati. Il cimitero è una delle zone più suggestive e caratteristiche di questa città. Camminando nel viale centrale sembra di stare in una città senza tempo, come una sorta di Minas Tirith. Durante le operazioni camminavo un po’ distante dai miei e mi guardavo attorno. Avevo paura che da un qualche angolo comparisse qualcuno di voi pronto a fare la supercazzola: “caro paolo, siamo fratelli nel dolore”. Ho tirato un sospiro di sollievo a vedere che le mattonelle del cimitero avevano lasciato spazio all’asfalto dell’esterno e che nessuno di voi si fosse palesato.

Ho fatto due volte il medesimo giro, conscio che tanto nessuno m’avrebbe visto. Mani dietro la schiena e passo da vecchio. Tra un mese tutto sarà diverso. Volevo pensare ma non so cosa ne sia uscito, però di colori sotto alle suole ne son passati. Per fortuna c’è sempre un cortile cui tornare e dove stare in infradito. Poco importa se sia solo virtuale. Vorrà dire che avremo i piedi alati!


Avrei voluto scrivere tutto questo al momento in cui ero nella bell’isola ma la tecnologia non m’ha assistito. Lo finisco adesso, in aula esagoni. Dietro la porta a vetri si distingue la sagoma di un uomo. Non entra subito, esita. Mi viene da ridere. Sicuro a quest’ora è Sbatti che prima di entrare legge e rilegge il suo nome per la sessione di laurea che ci sarà tra due settimane. Si apre la porta e….no, nessuna ragazza bellissima cazzo. Era proprio Sbatti. Allora è proprio vero. Ci sarà da festeggiare. In cortile ci sarà musica sino all’alba.

martedì 11 febbraio 2014

Ami n'obi kriòl dritu

In criòlo, i verbi “apprendere” e “imparare” non esistono.
Esiste il verbo “obi”, che significa sia “ascoltare” o “imparare ascoltando”, e il verbo “odja”, che significa “vedere” o “imparare vedendo”. Ci ho messo un po' a capirlo, quando mi dicevano “bu obi criòl dritu!”, ossia “hai imparato bene il criolo!”, smentendo quindi l'affermazione di questi falsi adulatori o semplicemente incoraggianti e cordiali guinieensi. Oppure quella volta in cui Demba, mandinga, rasta, e suonatore di Djimbè mi disse ripetutamente “N'misti obi kil cançon ku viola” - “Voglio imparare a suonare questa canzone con la chitarra” mentre suonavo nel furgone il grande classico “Brigante se more”. Immaginate il disastro, se ho capito “ascoltare” anziché “imparare”.
Credo possa essere interessantissimo chiedersi il perchè non esista un verbo che significhi “apprendere”, il perchè l'apprendimento possa essere semanticamente ristretto ai sensi dell'udito o della vista. Che poi a pensarci bene, non ci sono moltissimi altri modi per imparare le cose se non vedendo e ascoltando, magari è solo un approccio un po' più quantitativo ad un processo mentale che indubbiamente è tra i più affascinanti, oltre che tra i più difficili da formalizzare. E poi sicuramente per tutto ciò che si apprende utilizzando altri organi che non siano occhi e orecchie ci saranno altri verbi suppletivi, quindi diciamo che porsi il problema potrebbe essere una perdita di tempo.

Fatto sta che

Sto dando un corso di inglese. Due per la precisione: uno per studenti e uno per professori.
Nella biblioteca della Cooperativa Escolar Sao Josè, alla cui realizzazione ho minimamente contribuito con un pochino di manodopera tutte le volte che a Bissau sono rimasto qualche giorno dopo il weekend - per motivi che non corrispondono esattamente alla necessità di velocizzare i lavori nella biblioteca -  ho trovato moltissimi libri di inglese dei licei portoghesi dai quali fotocopio materiale ed esercizi da dare ai miei studentelli per esercitarsi un po' a casa.
My niggas
Sono stato a parlare con il direttore della scuola di Quinhamèl, Nino ah e tu ti chiami Bernardo? E allora insieme siamo Joao Bernardo Nino Viera!*
Prima di cliccare sul link consiglio di leggere quanto segue. Le foto che linko le ho trovate scartabellando nell'hard disk della ONG, ritraggono il Viera morto e trucidato dai militari cui sono succeduti gli attuali governanti golpisti. Pensavo di aver trovato una miniera d'oro e di aver scoperto un complotto, invece sono - inspiegabilmente - a disposizione del popolo guineense tutto e non solo. Pertanto ho proceduto a dissolvere qualsivoglia dubbio rispetto alla totale legalità della pubblicazione delle suddette.  
L'evocativo Nino mi ha detto che si, sarebbe proprio bello fare un corso di inglese per gli studenti! Ma potresti aprirlo anche ai professori? Ce ne sono molti che vorrebbero imparare, però il livello è proprio basico basico.
Un po' di studenti li conosco, tutti tra il settimo e il dodicesimo anno di scuola; alcuni l'inglese lo parlano meglio di altri, anche se secondo Nino il livello di insegnamento è talmente basso che tutti i ragazzi hanno gli stessi language skills. In più, ancor prima che arrivasse il giorno in cui si sarebbero aperte le iscrizioni avevo 50 studenti iscritti e 30 professori – nonostante avessi indicato in un cartello scritto in portoghese e criolo affisso a scuola che i posti fossero 10 per corso. Ma chi sono io per negare a questi volenterosi discenti le perle di un pugliese che dice ancora “bicòus” anziché “beacause”!
Pertanto ho pensato, stanti queste condizioni, che fosse sensato dividere gli studenti in due corsi – uno più avanzato e uno più basico. Questo lo avrei fatto solo dopo aver fissato una riunione con gli studenti in cui avrei valutato il livello di ciascuno. Ma che stronzata pazzesca.
Innanzitutto alla riunione si sono presentati la metà degli iscritti, e alcuni professori “che avevano capito male”, uno smargiasso che l'inglese lo sapeva benissimo ma voleva provarci con le tipelle, mostrando a tutti la sua pronuncia ammiccante e la capacità di sostenere la capacità con il titchà più scarso d'Europa. Quando ho cercato di spiegare le mie intenzioni rispetto alla divisione del corso, a parte il James Joyce dell'Africa Nera che continuava ad intervenire in inglese mentre io spiegavo in portoghese affinchè tutti capissero, tutti mi hanno risposto con degli sguardi attoniti e domande fuori posto che mi hanno fatto immediatamente abbandonare l'idea di selezionare gli studenti e decidere improvvisamente che quella sarebbe stata la prima lezione con gli studenti. A parte l'impossibilità di spiegargli che non si dice “shkul” ma “school”, seguivano tutti in religioso silenzio, nel frattempo qualcuno vedeva da fuori quello che succedeva nella Casa da Joventude e origliava curioso, mentre i più impavidi chiedevano di entrare – senza che gli venisse negato, ovviamente.
Tuttavia, leggermente urtato dalla defezione di metà degli studenti iscritti ho aspettato il giorno seguente per la riunione con i professori che, vittima di categorie mentali inapplicabili in questa terra, ho ritenuto più affidabili degli studenti.
Alla riunione sono rimasto solo, non è venuto neanche uno. Qualcuno qui mi ha detto “dovevi farlo a pagamento, e sarebbero venuti tutti”, oppure “ti devi mettere nella testa dell'africano, non incazzarti e fare in modo che si comporti da europeo”. Non intenzionato a fare nessuna delle due cose, la mattina sono andato a scuola incazzato col direttore, che con un “Esquessì!” - “Mi sono dimenticato” ha messo una pezza sul pacco del giorno prima; sono che non si era dimenticato solo di venire alla riunione con gli altri professori iscritti, ma anche di avvisare questi ultimi – un incarico del quale si è autoinvestito, e del quale mi sarei fatto carico volentieri.
Ho deciso di rilassarmi un secondo, e di fare le cose un po' più easy. Le lezioni seguenti hanno visto una partecipazione ben più cospicua, in termini qualitativi e quantitativi – più con gli studenti che con i professori. Alla domanda “how old are you” hanno risposto tutte le volte dicendo un età diversa, raggiungendo una sorta di equilibrio di Nash sul livello di 19 anni; non so se questo accade solo perchè non sanno bene i numeri, o perchè si sono resi conto che tutte le ragazze che ci sono al corso non superano i 19 anni.
Sono tutti estremamente volenterosi quanto timidi, parlano sempre con la mano davanti alla bocca e ridono due ore prima di iniziare a rispondere alle domande. Sono sicuramente vittime di un sistema scolastico di qualità bassissima, copiano forsennatamente dalla lavagna anche senza aver capito nulla di quello che è stato detto. E la cosa impressionante è davvero il fatto che il livello varia assolutamente a prescindere dagli anni di studio della lingua, più al variare del numero di canzoni di Lil'Waine e rasta jamaicani di sorta che ascoltano durante il giorno.
Ho protestato per anni contro il sottofinanziamento dell'istruzione pubblica, contro i tagli dei governi che dal 2005 si sono succeduti nel Belpaese per le mani di Moratti, Fioroni, Gelmini e Tremonti – ma quando sono finito in una discussione tra turisti spagnoli radical chic che facciamo il turismo responsabile, ma come non ce le hai le birrette? No perchè con le noccioline di qua sono proprio buone, e che palle sempre riso, ma non ce l'hai qualcos'altro – i quali sostenevano che il pubblico deve costruire scuole pubbliche e che le scuole private dovrebbero chiudere mi sono proprio incazzato. Perchè qui senza scuole private (alcune sono ex scuole di partito, altre cooperative laiche e alcune realizzate da missioni cattoliche) non ci sarebbe neanche quel poco di istruzione che c'è. I professori delle scuole pubbliche non sono stipendiati da mesi, e a ragion veduta i docenti vanno ad insegnare nelle scuole private – con rette da 2000 franchi al mese, 3 euro – a volte anche lasciando l'impiego pubblico. E le scuole pubbliche sono pienissime, per carità, le scuole private non drenano l'utenza scolastica ma nascono per sopperire alle mancanze dello Stato, contrariamente a quanto succede a nord del Mediterraneo e al di là dell'Oceano Atlantico.
Serve la rivoluzione, certo che serve. Ma senza istruzione non c'è rivoluzione, e se si aspetta che sia questo governo golpista a mandare la gente a scuola, stiamo più che freschi.

La mia ONG chiuderà a fine febbraio. Le ragioni sono molte, la verità è che questa ONG a conduzione familiare altro non è – era – che una microimpresa, dove l'impressione è costantemente quella di lavorare per i benefici di un gruppo ristretto di persone. Io e Sylvia saremo ricollocati per il mese di marzo in altri progetti, e salterà il mio corso senza grandi pretese ma che costituiva l'unica forma di contatto con la comunità di Quinhamèl dal punto di vista lavorativo. Non cambierà la vita a nessuno, magari. Ma questa ONG continuerà a possedere una struttura come la Casa de Joventude, con spazi e strumenti mai utilizzati se non per il corso di cui sopra; e questa ONG non esisterà più, così come molte hanno smesso di esistere fino a questo momento. Tutto questo con i soldi dei contribuenti o con delle donazioni, che costituiscono in questo caso uno spreco di denaro ingiustificabile.
Cosa manca qui perchè qualcosa cominci a funzionare? Forse manca un po' di serietà, forse mancano le presenze istituzionali, la consapevolezza di vivere in una comunità, in un sistema complesso; forse manca gente che si dedichi a questi progetti in modo continuativo, dalla parte di chi finanzia e di chi viene finanziato. Lo stesso Cabral, parlando del suo popolo, sosteneva che una persona non può essere lasciata troppo tempo nello stesso posto, altrimenti comincerà a lavorare male, ad approfittare delle occasioni e a rendere poco.
Ma fa davvero molta rabbia – e questo post è riduttivo da questo punto di vista – vedere come una grossa opportunità venga sprecata non solo ora, ma come sia stata sprecata sino ad ora. E diciamolo, anche vedere come il contributo profuso sino a questo momento da parte mia sarà solo un vano tentativo di raddrizzare qualcosa, se non sarà utilizzato per fini che non condivido del tutto, se non per niente, da persone che non meritano neanche le briciole.

La mentalità africana, i ritmi, quello che vi pare. Ma se “si fa molto meno di quello che si può”, forse è il caso davvero di cominciare a fare il massimo per il solo amore dell'uguaglianza tra gli esseri umani.  


Post Scriptum

Karim, lento coautore di questo blog che con le sue boutades rarefatte ha contribuito al riempimento di queste pagine, domani se ne va in Svezia e malauguratamente non potrò salutarlo come ha fatto lui con me accompagnandomi fino all'aereoporto. In Svezia fa freddo e i pomodori d'inverno col cazzo che crescono, ma so che te ne farai una ragione. Boa viagem!